Yes – Going for the One (1977)

di F.G. Longo –


Yes – Going for the One (1977)
Going for the One è l’ottavo lavoro in studio degli Yes, un disco che arriva dopo tre anni di assenza dalla sala di registrazione a causa dei molteplici impegni derivanti dai progetti solisti dei membri della band. Il 1977 vede rientrare in line up Rick Wakeman, che aveva prestato servizio in due tra i più celebri dischi degli Yes: Fragile e Close to the Edge. Dopo Tales from Topographic Oceans, infatti, il tastierista britannico abbandonò il gruppo per dedicarsi ai propri progetti.
In Going For The One le composizioni barocche ed estremamente articolate degli ultimi due lavori furono sostituite con strutture e melodie più semplici e fruibili. Si potrebbe pensare che sia stato Wakeman a spingere il quintetto londinese verso questo approccio, ma più probabilmente è verosimile che siano stati tutti i membri a concordare sulla necessità di un cambio di approccio rispetto al passato. In quegli anni l’ondata punk spazzò via gran parte dei gruppi progressive e solamente una piccola cerchia riuscì a sopravvivere. La conditio sine qua non per questa sopravvivenza fu però il cambio netto verso lidi più pop. Questo, nel caso degli Yes, portò a una semplificazione dei brani. L’incisione avvenne in Svizzera, più precisamente a Vevey, città nota soprattutto per essere sin dal medioevo tappa fondamentale della via francigena. Nella cittadina elvetica la band passò diversi mesi a cavallo tra il ’76 e il ’77 prima di riuscire a finire le lavorazioni del disco, che uscì l’estate successiva. Probabilmente la location influì sulla qualità finale del prodotto, infatti i suoni e la produzione risultano molto più curati rispetto al passato e Wakeman cambiò radicalmente sound sostituendo i mellotron e il mini moog con pianoforte ed organo (alcune parti furono incise utilizzando un organo a canne in una chiesa di Vevey). Un altro dettaglio che segna una importante svolta è l’utilizzo molto limitato di tempi dispari che sino a questo momento erano stati uno dei marchi di fabbrica degli Yes. L’importante evoluzione fu molto gradita dal pubblico e l’album riscontrò un successo inaspettato raggiungendo anche la prima posizione in classifica in Inghilterra e l’ottava negli Stati Uniti. Anche l’artwork segna un taglio netto con il passato. Gli Yes scelsero di non affidarsi a Roger Dean, storico grafico dell’era d’oro della band, dando invece l’incarico allo studio Hipgnosis, noto per aver creato alcune tra le copertine più famose di sempre, tra cui svetta quella di the Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. L’immagine è semplice ma efficace: vediamo un uomo nudo intento a guardare il cielo mentre sullo sfondo troneggiano le linee geometriche delle torri della Century Plaza di Los Angeles. Nonostante il cambio, venne comunque utilizzato lo storico logo ideato da Dean. Sicuramente la copertina non è ritenibile un’opera pari a quelle di Dean, ma è comunque un’immagine che resta ben impressa nella memoria.
È la title track ad introdurci in Going for the One. La slide guitar di Howe domina incontrastata nell’intro dal sapore quasi rock & roll e ci prepara all’ingresso di Anderson che parte dando sfoggio di tutta la sua estensione vocale, raggiungendo note da puro mezzo soprano. Il sound è ricco e molto moderno rispetto al passato, pur mantenendo gli inconfondibili tratti dello “yessound” tra i quali i cori a tre voci e il potentissimo basso di Squire. La struttura non lascia grandi sorprese e scorre in modo lineare ricalcando il classico schema della canzone rock, anche se la presenza massiccia di virtuosismi ruba totalmente la scena. Turn of the Century apre con gli arpeggi di chitarra acustica di Howe a sorreggere un’ottima performance di Anderson. Pian piano iniziano a spuntare anche gli altri strumenti. Il brano nella sua interezza è pienamente distensivo e meditativo. Le ritmiche, anche se molto veloci, rivestono un ruolo marginale lasciando l’intreccio di melodie dei vari strumenti in primo piano. È un potentissimo organo a canne a presentare Parallels. Quasi subito viene affiancato da un basso dal suono granitico ma dalle linee frizzanti. Senza dubbio è il brano più rock dell’album, dotato di un impatto sonoro devastante e condito di interventi di pregevolissima fattura pur poggiando su una struttura molto semplice. Wonderous Stories è la vera hit del disco, tanto da raggiungere la top ten in moltissime classifiche mondiali. Brano molto semplice ed evocativo, una ballad dall’inconfondibile “yessound”, nella quale i cori a tre voci e le tastiere hanno un ruolo preponderante. Giungiamo alla chiusura con Awake, suite già citata come uno dei brani preferiti da Anderson. Pur posizionandosi a molta distanza dalle vette di Close to the Edge, questa suite regala grandissime sorprese. Ad aprire il brano sono i virtuosismi dal sapore classico di Wakeman al pianoforte, seguiti da una moltitudine di cambiamenti che però mantengono come filo conduttore un’atmosfera eterea dai sentori ascetici. Le performance sono tutte di livello altissimo. Viaggiamo per oltre quindici minuti tra parti decisamente complesse, sia per tecnica che per armonia, che tuttavia restano orecchiabili. Senza ombra di dubbio parliamo del capolavoro dell’album, che rimanda pienamente allo stile compositivo di Fragile e Close to the Edge discostandosi nettamente dagli altri brani dell’album.