Solo1981, il rock che si rinnova!

di Roberto Pati –

A Settembre è uscito Il nuovo ep”Don’t give up” , questo terzo lavoro  sintetizza alla perfezione il percorso di Solo1981, Progetto attivo dal 2014, un viaggio tra elettronica, alternative rock, post punk e new wave .L’ urlo di un’anima contorta nella cornice del mondo di oggi.  Un progetto dove Stefano Giambastiani fa tutto da solo, e lo fa veramente bene. È concreta la padronanza degli strumenti con i quali si cimenta, sia canonici che elettronici. Riesce a creare un tappeto sonoro corposo e fluido allo stesso tempo. Non ci vuole molto a capire che stiamo parlando di un professionista che si muove nella scena indie italiana da decenni e non del solito improvvisato, di cui purtroppo la scena musicale italiana odierna è piena.

Ci si mette meno di un battito d’ali per capire da dove viene e dove và. un lavoro di sintesi, per certi versi sintetico, per la breve durata, ma puro e conciso. Un lavoro Don’t give up, che travalica con naturalezza senza banalizzarli, i propri modelli stilistici. Si legge con nitidezza tra le note una certa frequentazione di vinili post punk di prima generazione, sicuramente il nostro avrà masticato fino alla nausea album come Closer dei Joy division piuttosto che Seventeen Seconds con cui i Cure, iniziarono il loro viaggio verso il gotico che li porterà a diventare il faro per più di una generazione, ma non è rimasto immune nemmeno ad ascolti similari come o a gruppi che hanno affrontato le stesse tematiche magari in maniera più musicalmente fruibile, ma solo apparentemente, come Editors, Depeche mode e Kraftwek, infatti Solo 1981 parte con un percorso di ricerca votato all’elettronica più sperimentale e solo successivamente si lascia andare verso una naturale maturazione che passa per i già mensionati, ma anche per gli italianissimi Litfiba e Diaframma di prima generazione per approdare verso lidi più contorti che passano da CSI e Massimo Volume percepiti in Per un attimo, dove si sente inoltre un interessante tributo ai Verdena.

Don’t give up. Parte con un Cold days, che si aggrappa alla disperazione dei velvet Underground per arrivare a degli introspettivi Queen of the stone age, dopo aver attraversato un universo musicale variegato e spesso ostile, non passa inosservata una ritmica sontuosa che accompagna una voce spesso vicina ai richiami di Peter Murphy e i suoi Bauhaus. Don’t let me go, per certi versi più rock, ma comunque pur sempre agganciata a quel periodo in cui la new wave cercava di venir fuori dall’ubricatura punk, che comunque vela questo pezzo che probabilmente senza Seventeen Seconds dei Cure, non avrebbe mai visto la luce. Flint, un tributo ai Kraftwerk scampati alle maledizioni punk. Per un attimo, già scritto sopra. Il pezzo da me preferito forse per la mia predilezione ai pezzi cantati in italiano, forse perché mi sembra il più proiettato verso il futuro, forse, forse…

Non ha importanza, la cosa importante, che appena finito di ascoltare Don’t give up, se ne sente già la mancanza. Sarà un caso?

“Puoi ascoltare e sentire qui amore, odio, tristezza e oscurità, ma forse puoi anche trovare gioia e ballarci sopra” . (Stefano Giambastiani)