King Crimson – Starless and Bible Black (1974)

di F.G. Longo –


Forti di un quintetto di dischi che son diventati pietre miliari del genere, la formazione britannica non si ferma al cupo ed immenso Larks’ Tongues in Aspic, disco che segna una svolta netta con i precedenti, elaborando proprio in tal senso la costruzione di un sound ancora più avanguardistico, distorto ed introspettivo.

La componente basata sull’improvvisazione ha sempre avuto un ruolo primario nella composizione dei brani, tuttavia con Starless and Bible Black, il genio creativo di Robert Fripp decide di registrare più di due terzi del platter dal vivo, svolgendo un lungo lavoro di post-produzione per pulire i suoni e renderlo all’apparenza un album da studio. Buona parte delle canzoni è il risultato di lunghe improvvisazioni dal vivo, che nella loro purezza esprimono la parte più nascosta e spontanea della composizione crimsoniana. Ciò che ne esce fuori è una particolare miscela che ci porta a metà tra palco e studio di registrazione, in una dimensione appagante e alla quale non siamo concettualmente abituati: meno ordinata rispetto al precedente Larks’ Tongues in Aspic e al successivo Red, ma più dinamica e mutevole.

The Great Deceiver apre i fuochi con il binomio chitarra distorta e violino, tanto atipico quanto perfettamente funzionante: il riffing veloce e nervoso trasmette tutta la schizofrenia dell’uomo moderno, tema tanto caro al gruppo, alternandosi con improvvisi cambi di tempo che tendono a rallentare drasticamente i ritmi, prima di ripartire sulla cavalcante e complessa sezione ritmica dei nuovi Wetton e Bruford, che costituiscono di fatto il nucleo della formazione King Crimson III. Il rock sarcastico che prende di mira la religione con dei testi abbastanza controversi, sposta il proprio sguardo sull’industria discografica con Lament. Le atmosfere delicate e pulite, seppur non dolci, aprono il pezzo che in non molto tempo sfocia in una miscela di hard e jazz degna di nota: le chitarre distorte vanno ad incastrarsi con improvvisazioni di basso e percussioni totalmente imprevedibili. L’evoluzione del pezzo porta alla crescita del pathos e della carica nonostante la breve durata, fino ad un paio di giri conclusivi che chiudono il tutto in velocità, lasciando un forte senso di sospensione. Passati i primi due pezzi di Starless and Bible Black, gli unici ad essere stati registrati completamente in studio, escono fuori le prime sonorità più cupe ed introspettive. We’ll Let You Know è uno strumentale registrato integralmente in un live del 1973 tenutosi all’Apollo di Glasgow.

L’intera improvvisazione vede protagonista John Wetton, che con un lungo assolo di basso costruisce una tensione ed un senso di confusione -nel senso positivo della parola- sempre crescenti. La jam dal sapore tipicamente jazz lascia spazio a The Night Watch, uno dei brani più significativi dell’intero platter. Superati i primi minuti provenienti da un concerto tenutosi al Concertgebouw di Amsterdam, la registrazione passa dal palco allo studio nel resto della canzone senza che l’ascoltatore se ne accorga minimamente. Le parole descrivono le sensazioni e i pensieri di uno spettatore che osserva La Ronda di Notte, famosissimo quadro del pittore Rembrandt. Il senso di speranza precedentemente citato è lo stesso che si percepisce osservando la tela che dà un’immagine del periodo d’oro olandese, personificato nella parata organizzata dalla Compagnia degli Archibugeri di Amsterdam, comandata dal Capitano Cocq.

Trio, un lento strumentale che vede come protagonista David Cross al violino, accompagnato da Robert Fripp per l’occasione al mellotron e dal basso profondo e caldo di Wetton. La dolcezza dell’improvvisazione proveniente dal precedentemente citato concerto di Amsterdam. La magica delicatezza di Trio sfocia nelle percussioni di The Mincer, arricchite dalla forte psichedelia dei suoni tipici del gruppo. Prima di chiudere gli occhi non sono solo i pensieri piacevoli che possono avvolgere il nostro animo, ma anche le ansie e le riflessioni più cupe. La chitarra, progressivamente sempre più distorta e maligna, si insedia lentamente nella nostra testa andando a costruire un climax ascendente che dà la sensazione di essere in un enorme labirinto: il cantato contribuisce all’innalzamento delle mura, trasmettendo una forte suspense. Tuttavia il pathos costruito non trova il punto di decollo, cadendo rovinosamente sulla traccia che si interrompe, come se il disco fosse brutalmente rallentato ed interrotto. A questo punto del disco prende il controllo della sfera emotiva il regno onirico del sogno, visionario e mutevole, che trova forma nella longeva ed incredibile improvvisazione che costituisce la titletrack. La chitarra, graffiante e dal sound distorto, apre le visioni grazie anche ad una serie di “giocattoli” tipici del gruppo che producono suoni eterei e psichedelici. I King Crimson si spingono nuovamente ai confini del mondo della sperimentazioni con ogni loro mezzo, percosse agli strumenti, suoni valvolari ed elettronici, bassi pulsanti e mellotron soffocati da quel vortice di lento nervosismo. Il tutto è orchestrato su tempi imprevedibili e costantemente irregolari, arricchiti dalle molteplici percussioni. Il brano è un lungo viaggio che, tra rullate e groove estremamente densi e trascinanti, sfocia nel placido senso di sospensione finale tra mellotron e violino. Le sensazioni cupe e completamente deliranti di Starless and Bible Black non tardano a tornare con Fracture, brano sempre registrato dal vivo ma non improvvisato, poiché composto interamente dal mastermind Robert Fripp. La canzone che chiude il disco è un concentrato stilistico del chitarrista, che mette in risalto i pattern asimmetrici, le scale atonali e le scelte dissonanti. Il sogno è con assoluta certezza la migliore immagine da dare a questo brano: i jingle accompagnati dai sinistri arpeggi di chitarra creano un’atmosfera del tutto surreale che intreccia incubo e follia. Il crescendo della ritmica porta a una sezione che strizza l’occhio a quello che, in quel periodo, era il nascente heavy metal. Dopo un break che ci permette di respirare, si affaccia un motivo che tutti, alla fine dello stesso 1974, riconosceranno in Red, canzone dell’omonimo e successivo album. Un breve assolo di basso e un nuovo connubio tra violino e chitarra elettrica vanno a forgiare quello che poi sarà uno dei più famosi leitmotiv dei King Crimson. La frenetica e maestosa chiusura dell’album segna il finale di un assoluto capolavoro della storia del progressive rock.
Fonte: Michele Ridolfi