Amerigo Verardi ci racconta “Un Sogno di Maila”

di Roberto Pati –

In che modo si può cominciare a descrivere un artista come Amerigo Verardi che ha attraversato con coerenza cataclismi stilistici, producendo sempre con leggerezza discreti gioielli che hanno creato una catena indissolubile e che lo hanno portato indenne fino a noi?

Sarebbe fin troppo facile fare un’operazione didascalica. Ma Amerigo Verardi è altro, la sua musica non la si può raccontare con titoli e nomi. La sua musica nasce, vive, si rigenera da se stessa e non potrebbe essere altrimenti vista la lucida elitarietà con la quale è concepita. È la copertina a tinte tenui e tratti infiniti, il viatico di “Un Sogno di Maila“, quel suo essere rarefatta, come le trame delle 20 tracce che compongono il disco. Brani che ci portano a spasso per i continenti, sempre immersi in una dimensione onirica.

Qualsiasi biografia sarebbe riduttiva e poco esaustiva, Amerigo parla e nella sua voce l’amore per quello che fa accarezza le parole così come sfiora le corde della chitarra o i tasti di un pianoforte.

Chi è  Maila e cosa sogna?

Maila è la rappresentazione di un esperienza umana tutta al femminile che può tranquillamente essere l’incarnazione di chi l’ha creata, in questo caso io, ma potrebbe essere  chiunque. Rappresenta la fragilità umana, la bellezza contro le brutture del mondo. La fatica nel cercare di far prevalere l’amore per il bello, con tutto ciò che ne consegue. E’ la sensibilità di una persona che entra in contatto con delle realtà dure, e che affronta con la forza della sua grazia un percorso che porta alla conoscenza del proprio essere, della propria spiritualità.

La scelta di venti brani e quasi ottanta minuti di musica, quando la media attuale fatica a sfiorare la mezz’ora, è stata dettata da cosa? Dal materiale a disposizione oppure hai iniziato a scrivere e non ti sei fermato più?

La tua seconda ipotesi è quella corretta, e tra l’altro con l’album precedente, “Hippie Dixit“, la lunghezza era anche maggiore, visto che parliamo di un doppio vinile che sfiorava i cento minuti di musica, Considero chiuso un lavoro solo quando lo sento, e questo non me lo viene certo a suggerire una durata temporale, e nemmeno un discografico che mi impone una durata limitata per farlo risultare più digeribile,  più vendibile, non me lo impone nessuno. È il senso di quello che sto facendo che mi dice che il disco è chiuso.

La cosiddetta indipendenza artistica che sempre più latita, anche tra chi potrebbe permettersi il lusso di dire: “faccio come dico io”…

Questo è un paradosso, perché in realtà più hai un pubblico e apparentemente più ti potresti permettere le libertà di stimolare quel pubblico con qualcosa di forte, di importante, che sia un momento di riflessione e di crescita per tutti. Paradossalmente però, appunto, spesso è proprio in quel caso che questo passaggio non avviene, forse perché si ha paura di perdere qualcosa. E quindi certi rischi capita più spesso che se li prenda chi in realtà “non se lo potrebbe permettere”, o forse semplicemente chi non ha e non ha mai sentito di aver niente da perdere. Forse è proprio l’assenza di pressioni, di vincoli, che  ti dà la possibilità di mettere la musica al centro di tutto e non essere guidati da interessi altri se non dal proprio istinto, dalla propria passione e dal desiderio di dare il meglio che hai da offrire, senza riserve e senza limiti.

In questo album, piuttosto che in altri, si avverte questa contaminazione culturale musicale, che bene o male ha sempre accompagnato il tuo percorso artistico, ma qui è come se si facesse una sintesi , come se ci si fermasse e si guardasse un po’ quello che va al di là di quella che forse è l’esistenza fisica di Amerigo e che magari si vada un po’ oltre anche a livello metafisico.

E’ cosi, è stato così anche per  “Hippie Dixit” e a maggior ragione con “Un Sogno di Maila“. E’ naturale che abbia fatto ulteriori passi verso certe realtà ALTRE, che non riguardano esclusivamente una quotidianità, una presenza di spirito proprio sul nostro tempo e delle nostre fatiche di tutti i giorni. Riguarda soprattutto il nostro essere proiettati oltre. Questo però non vuol dire non essere presenti nel quotidiano anzi, significa valorizzarlo ancora di più, valorizzare quelle che sono le possibilità e le capacità dell’essere umano in tutte le sue forme. Le capacità di cui siamo stati dotati sono delle capacità che io sento il DOVERE di conoscere e di sfruttare, perché sento che sono un dono.  Non posso ignorare o rifiutare la mia parte spirituale semplicemente perché,  vivendo una dura realtà giornaliera, non posso prendere in considerazione altre qualità del mio essere. Non ha senso questa cosa, devo trovare la maniera, devo trovare la mia strada, lo faccio e provo a stimolare anche gli altri a farlo attraverso la musica. E trovo anche gratificante questo operare.

Ogni pezzo di “Un Sogno di Maila”, è come un bozzetto che fluisce e si intreccia tra le note, sono un po’ delle storie sospese ma concrete allo stesso tempo. Che guardano alla psiche come anche al discorso metafisico. Mi piace molto quest’idea di guardare in una direzione che dalla new age và verso la neopsichedelia, anche se sostanzialmente stiamo parlando di un concept che sfiora il prog fusion.

Sicuramente quello su cui sono d’accordo è che la musica di questo album racchiude quasi ogni esperienza a livello musicale che io ho fatto negli ultimi 35 anni, e questa cosa è avvenuta in maniera quasi inconscia. In realtà la mia idea iniziale per quest’album, quando ancora non c’era nulla dell’idea di Maila, era la mia voglia di fare un album strumentale e sperimentale.  Ma quando ho iniziato a mettere mano agli strumenti, ad accendere il registratore e valutare cosa stavo realizzando, mi sono accorto che venivano fuori melodie e canzoni. E alcune di queste canzoni mi sembravano una reminiscenza di strade che in qualche modo avevo già percorso decenni prima, ma era come se le stessi percorrendo a ritroso. E così che è apparsa Maila, attraverso questo sogno, e viverla attraverso i vari passaggi, dalla vita precedente, all’infanzia, dalla fanciullezza, all’adolescenza e quindi tornando indietro musicalmente, è stata una continua scoperta anche per me. Ho immaginato di costruire un concetto dell’album, mettendo insieme i vari pezzi che andavano via via emergendo, rimanendo concentrato non su un’idea fissa, ma restando con le antenne alzante e aspettando. A me piace molto più ascoltare che parlare in generale. Quando compongo o registro, sono più attento a quello che mi può arrivare dall’esterno che non a quello che sto per buttare sul nastro, o meglio sul software. Credo che abbia a che vedere con il porre il proprio ego in secondo piano e utilizzarlo solo quando è strettamente necessario e al solo scopo di ottenere un risultato finale più efficace.

Quindi diciamo che è più una costruzione passiva

Beh, lo è solo in apparenza, perché per mettere alle spalle il proprio ego ci devi lavorare su una vita, e c’è chi non ci riesce mai. Diciamo che rispetto a qualche anno fa, quando mi ponevo come il “deus ex machina” di tutto un processo creativo, adesso mi sento più un canale attraverso il quale confluiscono messaggi, impressioni, umori, idee; tutto quello che io poi cerco di tradurre nella maniera più bella e affascinante possibile affinché sia fruibile da più persone, lasciando intatto il messaggio puro all’interno. La mia funzione non è cambiata nel corso del tempo, sono io che ci ho messo un po’ di tempo per comprenderla.

Diciamo che adesso fai più una sintesi di quello che sei e soprattutto il fluire della musica un po’ ti attraversa e ti avvolge, anche perchè non si scorge una ricerca di un ritornello piuttosto che una melodia, o almeno se c’è, è un qualcosa che viene da sé, viene dall’interno e non perché quella è la parte del brano che va fatta in un certo modo. Per questo motivo non abbiamo molti passaggi facili, ma sono dei passaggi che si incastrano in una certa maniera, molto ermetica

Il mio discorso musicale non è mai passato attraverso dei codici facilmente leggibili da tutti, questo malgrado a me piaccia e mi attiri l’idea di poter arrivare a tutti. Ma devo anche essere onesto, nel senso che l’album parla delle fragilità umane, racconta della sensibilità di una donna, in particolare, ed è chiaro che ho particolarmente a cuore la sensibilità delle persone fragili che spesso subiscono questo loro essere più sensibili, vivendo questa realtà, in questa parte di mondo occidentale che fondamentalmente non premia la sensibilità, l’accoglienza, la compassione, e non premia  l’amore per le persone, gli animali e le piante. Parliamo  sicuramente di un mondo molto più teso alla ricerca del piacere istantaneo del benessere materiale a tutti i costi, magari anche a scapito degli altri.  Io in qualche modo parlo anche per quelle persone e a quelle persone che questa realtà la subiscono, la soffrono e che a volte malgrado probabilmente abbiano avuto più doni da madre natura rispetto ad altri,  poi paradossalmente ne subiscono di più le conseguenze di questa loro ipersensibilità. Quindi piuttosto che parlare a tutti, visto che ce ne sono già tanti di artisti che compiacciono e gratificano il gusto medio, cerco di occuparmi delle minoranze. Mi interessano le minoranze, soprattutto se vengono discriminate o oppresse, qualunque esse siano; minoranze a livello culturale, razziale, sessuale. Le difendo e e mi fa piacere poterlo fare attraverso l’arte.

Ma la musica dove sta andando, e tu in quest’era della musica liquida dove ti collochi?

È buffo, perché se fai la stessa domanda a un ragazzo di vent’anni non saprebbe come risponderti, perché loro ci sono nati nell’era della musica liquida, e quindi per loro questa realtà è un dato di fatto ed è l’unica realtà possibile. E io, in questo senso, sento un po’ come loro, per la verità. Penso che sia semplicemente un evoluzione, e se poi quest’evoluzione abbia portato anche dei malesseri, dei dispiaceri grossi a chi ha amato e fruito la musica in un certo modo, questo  è un altro discorso. Non riesco ad amare il vinile come lo amavo quando avevo 16 anni, quando facevo il diavolo a quattro per cercare di trovare un disco che non esisteva in nessun negozio. Passavano mesi e mesi, a volte anni, prima di avere quel disco che cercavi. Se poi mi chiedi come mi ci trovo io dentro questa cosa, ti dico che mi sento un osservatore, guardo quello che mi succede intorno e mi adeguo con naturalezza. Le uniche cose alle quali non mi adeguerò mai sono l’arroganza e la violenza. Per ciò che riguarda la tecnologia, io lavoro totalmente in digitale, da solo, non ho più un gruppo, e tutto quello che riesco a produrre è grazie a delle macchine e alla tecnologia digitale. E credo anche di essere riuscito a sfruttare bene questa tecnologia.  Se si riesce a sfruttare la tecnologia per fare delle cose belle e divulgarle, ben venga. Non mi scandalizzo se non ci sono più gli Stereo 8, i 45 giri. E non rimpiango che non esistano più i Beatles e invece ci siano, che ne so, i vari Sfera e Basta o chi altri, anche se il paragone è stupido, ma è la prima voce che mi è venuta in mente. A me piace la “trap“, mi intriga  Young Signorino. Se ascolti quel pezzo “Mmh Ha Ha Ha” e guardi il suo  video, in quei due minuti ci trovi la  descrizione perfetta di quello che sta succedendo al mondo, osservato però dalle nuove generazioni. Può non piacerti, ma lo spiega perfettamente. Io non lo posso spiegare così,  non lo può spiegare bene Manuel Agnelli non lo può spiegare bene nessuno della mia generazione. Chi è nato in questo periodo, con la musica liquida nel sangue, ha una visione che devi assolutamente rispettare, perché loro se la vivono sulla loro pelle, noi la viviamo più intellettualmente, e con nostalgie varie magari respingiamo qualcosa, oppure lodiamo  qualcos’altro. Abbiamo percorsi diversi, ma i ragazzi vivono la contemporaneità sulla loro pelle, e quindi dovremmo essere capaci di ascoltarli, non avendo degli stupidi pregiudizi. Perché nelle cose devi entrarci dentro, anche nelle cose che trovi più respingenti.

Certo che bisogna cercare di ascoltare tutto, ragionare su tutto, cercare di capire e poi magari non essere d’accordo. Ma non essere d’accordo per pregiudizio penso che sia la cosa più stupida.

Certamente. A volte capisco che può essere una difesa, magari da parte di chi come noi ha una certa età. Era la stessa cosa che succedeva a me quando avevo sedici anni e c’era il Punk e la gente guardava questi personaggi con le creste e letteralmente li schifava, e definiva merda la loro musica, mentre poi invece il punk la musica l’ha cambiata, e in un certo senso anche la società. Bisogna stare attenti a quello che si dice, è successa la stessa cosa ai Rolling Stones nei primi anni ‘60: i capelloni sporchi, stanno rovinando i nostri figli!

Cosa ascoltavi che ti ha portato a diventare un musicista

Io sono partito ascoltando le fiabe sonore quando avevo cinque anni. Mi proiettavo fin da piccolo, in quel mondo che mi portava a sognare, immergendomi in una dimensione parallela al presente, che però era anche una meravigliosa realtà. Questo accade a chi ha la fortuna di fruire delle fiabe, magari raccontate dai proprio genitori o dai nonni, oppure come ho fatto io attraverso i dischi regalati da un parente.Sono storie meravigliose, raccontate da voci meravigliose, condite da musica bellissima, delle vere e proprie opere d’arte. Sicuramente questa cosa mi ha attraversato tutta la vita fino ai giorni nostri, fino a “Un sogno di Maila” che in qualche modo ho concepito secondo quel tipo di criteri molto onirici. Comunque io a 8 anni ascoltavo già Suzi Quatro. Il mio primo lp è stato il suo primo album omonimo, un disco che ancora oggi mi piace, da lì son partito. Poi a 11 anni ho scoperto i Ramones, nel ’77 i Rolling  Stones e mi si è aperto proprio un mondo, un universo. E lì ho deciso di suonare la chitarra, perché quello era il mio immaginario: quando ho toccato con le mani e con il cuore la musica degli Stones attraverso la figura di Brian Jones, con tanti strumenti strani suonati e il suo  interesse per la musica etnica, quel suo fare un disco da solista registrato in Marocco… Ecco, quello mi ha proprio segnato, lì ho capito che tutto era possibile. Sono stato fin da ragazzino un amante della musica etnica, dalla nord africana a quella indiana fino al jazz più sperimentale. Uno dei miei eroi rimane John Coltrane, solo successivamente ho scoperto Miles Davis nel suo periodo elettrico. Ovviamente ci sono anche i Beatles e Syd Barret che mi hanno aperto scenari infiniti, e successivamente il Punk e la New Wave che me ne hanno aperti degli altri ancora. Diciamo che è stato  un processo molto lungo, partito  da lontano e riprocessato più e più volte nell’arco del tempo.

Invece oggi cosa ascolti?

Ascolto le stesse cose, con la differenza che ci aggiungo delle novità di recente uscita, cerco di ascoltare quello che viene prodotto. Faccio attenzione a quello che mi suggeriscono gli amici, che magari ascoltano più di me, vado a cercarmi delle cose e questo mi permette anche di aprire la tenda su quello che sta succedendo oggi e su quelli che sono i sentimenti di chi produce musica oggi, soprattutto i più giovani. Ma questo non significa che non apprezzi dischi come Life di MarcoParente, per esempio, che mi è piaciuto davvero molto.

Siamo sempre in quell’ambito di musica in cui non puoi essere ascoltatore passivo.

Con Amerigo Verardi parleresti ore, perché il suo essere artista vero, inconsciamente lo porta a inglobarti nel suo mondo, sradicandoti da un presente subalterno.