Alberto Camerini. L’arlecchino Rock

di F.G. Longo –

Alberto Camerini ha conosciuto il momento di massima popolarità tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, soprattutto grazie all’intuizione che ebbe nel riconoscere l’importanza del look e facendo del travestitismo la sua forza maggiore.


Ma procediamo con ordine: i Beatles sperimentarono e/o divulgarono il concept-album. Non più tante canzoni sparse ma un “insieme” di canzoni che offre la possibilità di essere letto in chiave monotematica, quindi pezzi collegati fra loro da uno o più elementi comuni, siano questi musicali, lirici, d’atmosfera o tutto insieme.


David Bowie fece dell’intera sua carriera un concept-album: brani che derivano dai precedenti e anticipano i successivi, magari di un altro Lp, e ogni Lp è collegato a quelli precedenti e a quelli che verranno, mentre le storie continuano, si incrociano, si richiamano. Da questo punto di vista, Camerini è il nostro piccolo David Bowie; Arlecchino, come Ziggy Stardust per il cantante inglese, si rivelerà una maschera a volte perfino difficile da eliminare.


La sua opera, dagli inizi fino ai nostri giorni, si presenta quindi come un continuum, formato da alcuni temi ricorrenti: quelli musicali (sperimentazione e tradizioni), quelli iconografici (il Carnevale e le maschere) e quelli testuali (l’incomunicabilità).Partecipa alla realizzazione di numerosi album, anche di artisti affermati come Patty Pravo, Ornella Vanoni, Area, Stormy Six, Equipe 84, Eugenio Finardi (col quale forma anche un gruppo: “Il Pacco”)…


Nel ’76, fiancheggiato da illustri collaboratori come Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Lucio Fabbri, Lucio Bardi, Pepè Gagliardi, Paolo Donnarumma, e, in un secondo tempo, l’amico Roberto Colombo (già arrangiatore di vari artisti tra cui Fabrizio De André nel concerto con la Pfm) si mette in proprio e per i primi due-tre anni inizia i suoi esperimenti nel tentativo di creare una forma di pop moderno servendosi non tanto (non solo) dei paradigmi classici (blues, country, rock’n’roll, beat, folksinger ecc.) quanto dei ritmi e delle sonorità della sua terra: il Brasile.


“Sono nato nel sole di un paese grande – racconta – che libero forse non è stato mai, un paese grande, di gente felice, di grandi foreste e di grandi città…”
Per cui ecco che all’elettronica, ai sintetizzatori, all’elettricità degli strumenti, alla forma-canzone tipicamente rock, Camerini aggiunge samba, danze Catira degli indios, percussioni marimba, saudade, liturgia macumba, l’afoxe di Bahia e tutti i generi che compongono quell’eterogeneo melting pot di una nazione grande, molto particolare, in cui si sono assimilate influenze di tutte le popolazioni, in cui hanno convissuto il voodoo, il condomblè, le leggende dei pirati e cercatori d’oro, le orchestre dei musicisti jazz (la bossanova) ecc.Ares Tavolazzi, ex bassista degli Area, partecipa alla realizzazione del secondo album (oltre ad esserne anche il produttore) suonando basso, chitarra portoghese e violoncello. Lo stesso Camerini si diletta con gli strumenti più inconsueti, dal mandolino fino alla programmazione dei campionatori.


Il cambio di etichetta (dalla Cramps alla Cbs) segna anche il passaggio, in modo ancor più evidente, degli interessi del cantante verso l’elettronica, e dà il via alla parentesi fortunata durante la quale le sue ricerche lo portano, per un certo periodo di tempo (1980-1984) a successi commerciali, dischi di platino, prime pagine di giornali specializzati, inviti a trasmissioni televisive e anche partecipazioni a vari festival (che, in qualche modo decretarono la fine di quel momento aureo in cui la sua band arrivò a servirsi addirittura di cinque sintetizzatori!).


Successivamente disgustato dalle castranti quanto miopi imposizione della nuova casa discografica, Camerini decide di concedersi del tempo per riflettere, per studiare e per maturare, forse anche costretto a questa scelta da problemi di salute e personali. Lo farà in Brasile e a Venezia. E non sarà un caso.


Tornato con l’idea di starsene più in disparte, di appoggiare la causa dei centri sociali, di fare spettacoli in piccoli spazi in cui avere un rapporto più stretto col pubblico, dopo un impacciato tentativo di autoproduzione con l’album Dove l’arcobaleno arriva (1995), riprende le sue sperimentazioni, soprattutto quel tentativo di mantenere vive le tradizioni popolari senza rimanere arretrato in campo rock, senza mai cadere in alcun tipo di revival e senza cedere allo “strapotere” anglo-americanoCosì amplia i suoi orizzonti proponendo anche i generi tipicamente italiani che, tra la fine del Seicento e l’inizio dell’Ottocento, sfondarono in tutta Europa. Esperimenti nobilissimi che forse pochi hanno avuto modo di apprezzare. Per i più, Camerini resterà soltanto l’Arlecchino elettronico, più commerciale ed esibizionista.


Tra l’altro, anche durante il periodo di maggior notorietà, Camerini non si abbandonerà mai alla commercialità facile. Appassionato studioso di Commedia dell’Arte e delle controculture nella storia e nel mondo, semplicemente capisce, come già tanti avevano fatto da tempo fuori dall’Italia, che l’immagine è componente fondamentale nell’universo della musica pop. E per un po’ si diverte a giocare. Ma fra una chitarra dalla forma strana e un’acconciatura bizzarra, fra un “Tanz Bambolina” e un “Rock’n’roll Robot” (massimo successo di sempre), nei suoi album compare immancabilmente ora un pezzo ska, ora un’arietta veneziana del XVIII secolo, ora una ballata, ora un brano in chiave salsa, sempre sotto una veste comica e divertita. Artista e musicista immenso.