Progressive Italia: Picchio dal Pozzo

di F.G. Longo –

Picchio Dal Pozzo è un quartetto ligure fondato da Andrea Beccari, Aldo De Scalzi, Paolo Griguolo e Giorgio Karaghiosoff, immerso in contesti e motivi di quel prog italico surreale e impetuoso, spontaneo e sinistro. Ma Picchio è anche completamente affrancato da un particolare giro, è un progetto esemplare, autarchico, fortificato nel proprio linguaggio musicale.
“Alle quotidiane interminabili sessioni di prova, ognuno portava qualcosa da casa. Un giro di basso, un riff di chitarra, un distorsore autocostruito, piatti (per la batteria), biscotti (per il tè). Un giorno Karaghiosoff portò un enorme collage, realizzato sul retro di una locandina da cinema, su cui aveva composto una poesia ritagliando le parole da diverse riviste. Alcune pause di un ottavo davano indicazioni per la respirazione, e alla fine del testo compariva una figura misteriosa, vestita con un’armatura medievale e una piuma sull’elmo, in piedi presso un pozzo. Forse, andando oltre le intenzioni dell’autore stesso, tutti i presenti associarono quella figura a quel ‘Picchio dal Pozzo’, come fossero nome e cognome del nobile cavaliere”.

Apprese fonti e grammatiche sin da tenera età, i primi concerti con flauto dolce su musiche Orff, le ritmiche dispari di matrice zappiana e la filosofia musicale di Canterbury (Robert Wyatt, Soft Machine, Gong), il giovane quartetto, asserragliato nel Forte di San Martino e coadiuvato da un valido stuolo di musicisti liguri in prestito da altri gruppi, sognò di perdersi sulla via di Canterbury, nel Kent, percorrendo un viaggio da mistici, “scalzi”.
Le coordinate geografiche di Picchio dal Pozzo, per quanto “immaginate”, erano esatte e le piste, tracciate di proprio pugno a matita e pastelli, inventavano un’anima errante dalla natura fragile, candida, scanzonata.
Un tragitto per sentieri rurali, per castelli e campanili, per colli e tetti, per sponde mediterranee.
Qui la sua anima esausta ed ebbra si fermò e si perse per sempre.

Un delicato cullante motivo di chitarra acustica bissato dallo xilofono e da una voce emanata dal subconscio quasi “materica”, svela progressivamente nell’apertura di “Merta” una luce mattutina di chiarore inaudito. In tale carezza svolta la natura enigmatica e policroma di Picchio Dal Pozzo. Visioni turchine si levano da strumenti a fiato e corda, da sintetizzatori, da gorgheggi naufraghi surreali (brusii, gargarismi) e percussioni dirompenti.
Tutto questo effondono le tastiere e il corno su “Cocomelastico” e soprattutto sulla suite “Seppia”, picaresca epifania inenarrabile a parole, palpitante carnevalesco delirio canterburiano ora etereo ora impetuoso, fantasia apollinea e poi dionisiaca, raga traboccante vigore inventivo: come gli album di Hatfield & The North, è chiosa ideale di un intero”movimento. “… e l’upupa piano si svegliò
si sentì il suo canto mentre il sole se ne andò, adagiato sul fiume, mentre nel buio lei s’involava nel freddo del Po”.

Picchio Dal Pozzo è questo “soffice” volubile mistero senza soluzione, retaggio antico, corto mnemonico. Una strana, piana/inconsulta convivenza di struttura ora ordinata ora caotica, di energia nervosa e di stasi introversa accentua la confusione, svela ed esplora una natura sfaccettata, una realtà ironica viva e scrupolosa.
Semitrasparente, quasi dissolto allo stato aeriforme, steso e spinto nell’atmosfera, questo corpo fatto di musica s’addensa fluttuando, ondeggiando, rotolandosi torpido, cogliendo sensi e memorie nel sale, nel polline, nei semi sparsi in terra o nel vento. Si riflette in albe specchiate nel manto del mare (“La floricultura di Tschincinnata”, “La Bolla”).
È musica ausilio della memoria che solleva immagini dagli strumenti, tesi come cineprese per panoramiche. Uno stuolo di stordenti contorni di spezzoni da radio e suoni di natura, onde e modulazioni evocano luoghi e stati d’animo, vividi e identificabili dall’ascoltatore, assorto e in–sorta di comunione. “Mettiamo il caso che un albero ci sia con sensibilità dove andrà troverà”.

Non è un viaggio solo via terra, ma è spinto per mare, sospeso nel cielo. Cullato nel vento da strumenti agitati, percorso e ricordato da filamenti vocali in briglia e da transizioni di strumenti “tonali”. “Napier” è uno spirito che via via si libera di materia e memoria per assurgere, elevarsi. Nel suo viaggio, Picchio Dal Pozzo fa perdere le tracce, si perde, si annulla. Abbandona la strada e il cammino restando dentro sé, in emisferi irreali, vagheggiando la stessa Arcadia wyattiana delle copertine di “The End Of An Ear” e “Rock Bottom”. Si porta e ci porta indietro in uno strano oscuro equilibrio paesaggistico, in visioni suggestionate e scandite da pratiche antiche (come il pianoforte e il flauto a suggello, su “Off”).

E’ uno strano, insolito, torbido miscuglio questo disco, sprofondato in un reame immaginario. Una fascinazione naturalistica, lenticolare, di note assimilate a colori; fiabe sussurrate e preziose fantasie melodiche restituiscono, liberata, l’autentica essenza della musica totale. 

“Foto di copertina tratta da una illustrazione della Heinrich Ellermann Verlag, una casa Editrice di Amburgo specializzata in libri per bambini. La faccia con occhiali non fa parte del disegno originale: si tratta di Mauro Fiore, cugino di Giorgio Karaghiosoff, famoso per l’imitazione della rana.” 
Gli inserti tra virgolette sono tratti dal sito ufficiale del gruppo.
(21/06/2007)

Tracklist

Lato A (“Hay Fay”)

  1. Merta
  2. Cocomelastico
  3. Seppia
    3a. Sottotitolo
    3b. Frescofresco
    3c. Rusf
  4. Bofonchia

Lato B (“Fay Hay”)

  1. Napier
  2. La floricultura di Tschincinnata
  3. La bolla
  4. Off